La cattiveria è scritta nel DNA
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La cattiveria è scritta nel DNA

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La Scienza rivela in che modo i geni influenzino il comportamento umano, predisponendo alcuni individui alla malvagità e altri alla bontà

Negli ultimi decenni la Neuroscienza e la Genetica comportamentale hanno compiuto progressi enormi nel comprendere i meccanismi che guidano la condotta umana. Un macrotema che ha attirato particolare attenzione è la “cattiveria”, quindi la predisposizione a comportamenti aggressivi, manipolatori e antisociali.

Non si tratta solo di una questione culturale o ambientale: sempre più studi dimostrano che esistono basi genetiche che influiscono sul grado di aggressività e di empatia di ciascun individuo.

Il peso della genetica nell’aggressività

Ricerche di Psicogenetica hanno evidenziato che varianti di alcuni geni possono predisporre a comportamenti antisociali. In particolare, il gene MAOA (noto come “gene guerriero”), che regola la degradazione di neurotrasmettitori come serotonina e dopamina, è stato associato a una maggiore impulsività e aggressività.

Uno studio pubblicato su Science (Caspi et al., 2002) ha mostrato che i soggetti portatori di una variante a bassa attività di MAOA, esposti ad ambienti familiari violenti, sviluppavano più frequentemente tratti antisociali.

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Anche la genetica dell’ossitocina e della vasopressina, ormoni coinvolti nell’empatia e nel legame sociale, rivela come varianti recettoriali possano influenzare la capacità di provare compassione. Analisi su gemelli monozigoti e dizigoti, pubblicate su Behavior Genetics, hanno stimato che fino al 50% della variabilità nei tratti antisociali può essere attribuita a fattori genetici.

L’impossibilità di trasformare chi è malvagio

Se la genetica plasma le basi della personalità, è evidente che non tutti partono dalle stesse condizioni. Le persone con predisposizione a tratti antisociali marcati mostrano scarsa risposta a interventi educativi o terapeutici.

Numerosi studi sulla psicopatia, ad esempio quelli di Robert Hare e colleghi, hanno rilevato che i soggetti con elevati punteggi nella Psychopathy Checklist non modificano in modo sostanziale i loro comportamenti antisociali nemmeno dopo anni di programmi riabilitativi.

Questo accade perché la mancanza di empatia e la ricerca manipolativa del potere non sono semplicemente “scelte sbagliate”, ma caratteristiche strutturali della personalità, radicate nella Neurobiologia e nell’assetto genetico. Illudersi di poter cambiare radicalmente una persona malvagia significa ignorare i limiti fissati dalla biologia.

La speranza risiede nelle persone buone

Ma non tutto è determinato in senso negativo. Se è vero che chi nasce con una forte predisposizione antisociale raramente muta in profondità, è altrettanto vero che chi nasce con un’impronta genetica più empatica e prosociale ha margini di crescita enormi.

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Le neuroscienze dimostrano che la plasticità cerebrale, unita all’educazione, alle esperienze affettive e alla cultura, può rafforzare i circuiti della cooperazione, della compassione, della giustizia.

In altre parole, chi è buono può diventare ancora migliore. La capacità di coltivare valori etici, di sviluppare resilienza e di espandere l’empatia è un patrimonio che può crescere nel tempo. La società, allora, può trarre beneficio investendo su queste persone, sostenendo percorsi educativi e culturali che favoriscano la diffusione del bene.

Se il male ha radici genetiche difficili da estirpare, il bene può fiorire, diffondersi e rendere il la società più sana.

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